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mercoledì 19 gennaio 2011

Onere di repechage e demansionamento del lavoratore

Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo consiste nell’atto di recesso posto in essere dal datore di lavoro legato a ragioni inerenti l’attività produttiva, l’organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di essa [ Articolo 3, Legge 604/1966].

Le scelte imprenditoriali alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo possono essere di carattere economico o tecnico – produttivo ma non possono essere operate in ragione di una sola convenienza economica.

Ai sensi dell’articolo 5 della sopracitata Legge, spetta al datore di lavoro l’onere probatorio della sussistenza di un giustificato motivo di licenziamento.

Di conseguenza, qualora la cessazione del rapporto di lavoro sia avvenuta per motivazioni di carattere obiettivo inerenti l’ organizzazione aziendale, il datore di lavoro ha l’onere di dimostrare:

- l’effettiva sussistenza di ragioni di ordine produttivo e organizzativo indicate dallo stesso nell’atto di recesso;
- l’effettiva sussistenza di un nesso causale intercorrente tra le medesime ragioni e la soppressione del posto del lavoro;
- l’impossibilità di ricollocare il dipendente all’interno della struttura aziendale, adibendolo anche ad una mansione diversa per la quale è stato assunto e purché compatibile con la professionalità acquisita nel corso del rapporto di lavoro [c.d. onere di repechage].

L’obbligo di dimostrare l’impossibilità di riutilizzare il dipendente in altre mansioni, dal cui assolvimento dipende la legittimità del licenziamento, è costituito da una prova di carattere negativo e può essere assolto mediante la dimostrazione di correlativi fatti positivi che investono l’intera struttura aziendale. In ogni caso, l’obbligo in capo al datore di lavoro di provare l’impossibilità di riutilizzo del dipendente in altre mansioni può trovare conferma anche in elementi probatori di natura indiziaria e presuntiva.

Secondo la prevalente giurisprudenza, ai fini della prova della sussistenza del giustificato motivo obiettivo del licenziamento, l’onere incombente sul datore di lavoro deve essere effettuato verificando sul piano concreto la incompatibilità della professionalità del lavoratore licenziato con il nuovo assetto organizzativo dell’azienda e tenendo conto di dati oggettivamente rilevabili che possono essere sintomatici di tale incompatibilità, quali:

- la mancanza di alternative occupazionali da parte del dipendente licenziato;
- la mancata assunzione di personale destinato alle stesse mansioni del dipendente licenziato;
- L’effettiva riduzione del volume di affari;
- Et cetera.

La prova datoriale deve investire l’intera struttura aziendale e quindi deve estendersi a tutte le unità produttive o rami d’azienda, ivi comprese le eventuali sedi estere della stessa.
In ogni caso, l’onere probatorio del datore di lavoro deve essere contenuto nei limiti della ragionevolezza e nell’ambito delle contrapposte controdeduzioni delle parti cioè nell’allegazione da parte del lavoratore del posto di lavoro disponibile.

Ai fini della prova della sussistenza del giustificato motivo obiettivo del licenziamento l'onere della dimostrazione della impossibilità di adibire il lavoratore allo svolgimento di altre mansioni analoghe a quelle svolte in precedenza, pur gravando interamente sul datore di lavoro e non potendo essere posto a carico del lavoratore [ Articolo 5, l. 604/1966] , implica comunque per quest'ultimo un onere di deduzione e allegazione, tra gli elementi posti a fondamento dell'azione e tra i presupposti della sua domanda, della possibilità di essere adibito ad altre mansioni, allo scopo di sollecitare il relativo onere probatorio datoriale.

Di fatto, dal momento che non è possibile gravare il datore di lavoro di una prova diabolica o negativa e impossibile, tale onere va temperato con il richiedere che anche il lavoratore indichi circostanze di fatto utili a dimostrare o anche solo a far presumere l'esistenza, nell'ambito dell'azienda, di posti di lavoro cui poter essere ancora adibito.

In ogni caso, la prova da parte del lavoratore non può limitarsi ad una contestazione generica, ma deve indicare in maniera specifica quali siano concretamente le eventuali posizioni lavorative alternativa a cui egli potrebbe essere utilmente collocato nonché l’allegazione in merito all’effettuazione di nuove assunzioni da parte datoriale [ Cass.19 febbraio 2008, n. 4068].

Riassumendo, il datore di lavoro, oltre a dimostrare la ricorrenza dei presupposti di legittimità di recesso sopraesposti, è tenuto a provare l’impossibilità a procedere al c.d. repechage, cioè di utilizzare il dipendente in altro posto di lavoro per il disimpegno delle stesse mansioni o di altre equivalenti senza dequilificazione e con piena utilizzazione delle capacità professionali, escluso l’obbligo di assegnare al lavoratore mansioni inferiori, al fine della salvaguardia del posto di lavoro.

Di fatto un recente orientamento giurisprudenziale reputa ammissibile anche un declassamento del lavoratore, quale extrema ratio volta a evitare il licenziamento : la verifica della possibilità di repechage va pertanto fatta, oltre con riferimento a mansioni equivalenti, anche avendo riguardo a mansioni inferiori, qualora i lavoratori abbiano manifestato la propria disponibilità in tal senso.

Le parti possono pertanto concludere un patto di demansionamento ovvero ‘patto di dequalificazione’ quale unico mezzo per la conservazione del rapporto di lavoro.

Il suddetto patto non consiste in una deroga alla norma diretta alla regolamentazione dello ius variandi del datore di lavoro, ma di una modifica concordata del contratto di lavoro originariamente sottoscritto dalle parti da realizzarsi, a tutela delle reciproche posizioni, secondo le modalità stabilite dall’articolo 2113 c.c. ovvero mediante la sottoscrizione di un verbale di conciliazione.

Di fatto, la Suprema Corte ha affermato che, in caso di demansionamento attuato come unica alternativa al licenziamento, il c.d. patto di dequalificazione non costituisce già una deroga all’articolo 2103 del c.c., bensì un adeguamento del contratto alla nuova situazione di fatto, sorretto dal consenso e dall’interesse del lavoratore.

Pertanto, in detto accordo dovrà esser dato conto:

- Delle ragioni di carattere oggettivo che hanno imposto la riorganizzazione aziendale;
- della conseguente soppressione del posto di lavoro;
- dell’impossibilità di adibire il lavoratore a mansione equivalenti a quelle precedentemente svolte;
- della possibilità di assegnare il lavoratore a mansioni diverse ed inferiori come extrema ratio;
- del consenso del lavoratore alla modifica in peius del rapporto, mediante sottoscrizione di un nuovo contratto di lavoro che preveda il suo inquadramento nel nuovo ed inferiore profilo professionale.

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