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martedì 7 dicembre 2010

Superamento delle 48 ore: il lavoratore deve essere risarcito

L'orario di lavoro rappresenta da sempre uno dei punti fondamentali del rapporto di lavoro e la riforma introdotta dal decreto legislativo 8 aprile 2003, n. 66 costituisce il riferimento normativo principale del nostro ordinamento.

La norma trae origine in disposizioni comunitarie contenute nelle direttive 93/104/Ce e 2003/88/Ce.

Il Ministero del lavoro, grazie a numerosi interpelli diffusi, ha contribuito in questi anni a fare chiarezza su diversi aspetti dell'orario di lavoro cercando di andare incontro ad esigenze di flessibilità dei datori di lavoro anche se ad oggi rimangono aperti diversi problemi operativi.

Recentemente la Corte di Giustizia Europea con sentenza del 25 novembre 2010, causa C-429/09 ha affrontato il tema delle conseguenze circa il superamento della durata massima della prestazione lavorativa.

La norma italiana - comune a tutta l'Unione Europea - prevede che (articolo 4 del Decreto legislativo 8 aprile 2003, n. 66) "La durata media dell'orario di lavoro non può in ogni caso superare, per ogni periodo di sette giorni, le quarantotto ore, comprese le ore di lavoro straordinario... la durata media dell'orario di lavoro deve essere calcolata con riferimento a un periodo non superiore a quattro mesi... I contratti collettivi di lavoro possono in ogni caso elevare il limite...fino a sei mesi ovvero fino a dodici mesi a fronte di ragioni obiettive, tecniche o inerenti all'organizzazione del lavoro, specificate negli stessi contratti collettivi".

Il successivo articolo 6 del medesimo decreto stabilisce che "I periodi di ferie annue e i periodi di assenza per malattia non sono presi in considerazione ai fini del computo della media di cui all'articolo 4".

In altri termini, il lavoratore non può lavorare un numero infinito di ore settimanali, ma la prestazione deve essere contenuta in un arco temporale definito come sopra indicato seguendo un preciso criterio di calcolo che al momento non appare ancora chiaro agli operatori. Si pone, però, il problema di conoscere le conseguenze nel caso in cui, per diversi motivi, la prestazione vada oltre tale limite. La sentenza della Corte di Giustizia in esame si colloca proprio in questo ambito e stabilisce le conseguenze di tale sforamento che rappresenta una diffusa pratica utilizzata nelle aziende. La domanda è stata presentata nell'ambito di una controversia tra un lavoratore ed il suo datore di lavoro in merito alla domanda di compensazione che egli ha proposto a causa della durata eccessiva dell'orario di lavoro effettuata nell'ambito del servizio prestato presso quest'ultimo in qualità di vigile del fuoco.

Il caso

La causa riguarda un rapporto del pubblico impiego in Germania, però il principio - per le caratteristiche della norma - si applica anche a tutte le aziende del settore privato e pubblico degli altri Paesi europei.

Il lavoratore in questione è impiegato presso l'azienda pubblica tedesca dal 10 maggio 1982.

Nominato pubblico dipendente di ruolo nel corso del 1998 con il grado di vigile del fuoco qualificato dal 15 dicembre 2005 egli detiene il grado di capo reparto.

Fino al 4 gennaio 2007, il lavoratore era assegnato al servizio di pronto intervento "prevenzione antincendio" dei vigili del fuoco come conducente di automezzi. Il suo orario di servizio prevedeva mediamente 54 ore per settimana e comprendeva turni di 24 ore. Ciascuno di questi turni, durante i quali il vigile del fuoco è tenuto ad essere presente in caserma, era composto da un periodo di servizio attivo e da un periodo di permanenza, che poteva essere interrotto da un intervento.

Con lettera del 13 dicembre 2006, il lavoratore, facendo riferimento all'ordinanza della Corte 14 luglio 2005, causa C52/04, ha chiesto che, in futuro, il suo orario di lavoro settimanale non superasse più il limite massimo medio di 48 ore previsto dall'art. 6, lett. b), della direttiva 2003/88.

Nella stessa lettera il lavoratore ha altresì rivendicato diritti alla compensazione per gli straordinari effettuati illegittimamente nel periodo compreso tra il 1° gennaio 2004 ed il 31 dicembre 2006, diritti che avrebbero potuto essergli riconosciuti sotto forma di riposo ovvero con un'indennità corrispondente alle ore straordinarie svolte.

Con decisione 20 marzo 2007, l'azienda pubblica tedesca ha respinto la domanda di compensazione presentata dal lavoratore per il periodo compreso tra il 1° gennaio 2004 ed il 31 dicembre 2006, facendo riferimento ad un'ordinanza del 17 ottobre 2006 secondo cui il diritto a riposo compensativo sorgerebbe dal giorno di presentazione di una domanda diretta al suo riconoscimento.

L'azienda, per contro, ha accolto la domanda del lavoratore diretta alla concessione di un riposo compensativo per gli straordinari effettuati a partire dal gennaio 2007. Tuttavia, poiché, la durata massima del lavoro settimanale compiuto da quest'ultimo era stata rispettata successivamente al suo trasferimento ad un altro servizio, non avrebbe potuto essergli riconosciuta alcuna compensazione finanziaria per tale periodo né a titolo di risarcimento del danno, né a titolo di "diritto all'eliminazione delle conseguenze pregiudizievoli".

Con decisione 25 aprile 2007, l'azienda ha respinto il reclamo proposto dal lavoratore avverso la suddetta decisione di rigetto 20 marzo 2007, considerando che, sebbene quest'ultimo abbia diritto di domandare la cessazione della violazione del diritto dell'Unione derivante dal superamento della durata media settimanale dell'orario di lavoro di 48 ore, ciò varrebbe unicamente per il periodo decorrente dalla fine del mese nel quale la domanda è stata proposta, dato che ogni pubblico dipendente dovrebbe previamente presentare reclamo dinanzi al datore di lavoro per contestarne il comportamento illegittimo.

La decisione

La Corte afferma, in via preliminare, che occorre rammentare che l'art. 6, lett. b), della direttiva 2003/88 costituisce una norma del diritto sociale dell'Unione che riveste importanza particolare, di cui ogni lavoratore deve poter beneficiare quale prescrizione minima necessaria per garantire la tutela della sua sicurezza e della sua salute, la quale impone agli Stati membri l'obbligo di prevedere un limite di 48 ore alla durata media settimanale del lavoro, limite massimo che, come espressamente precisato, include le ore di straordinario e che, in mancanza di attuazione nel diritto interno della facoltà prevista dall'art. 22, n. 1, di tale direttiva, non può in alcun caso essere derogato con riguardo ad attività come quella di vigile del fuoco, di cui trattasi nella causa principale, "neppure con il consenso del lavoratore interessato". La Corte ha dichiarato che ai singoli lavoratori lesi è riconosciuto un diritto al risarcimento purché siano soddisfatte tre condizioni, vale a dire quando:

- la norma giuridica dell'Unione violata sia preordinata a conferire loro diritti;

- la violazione di tale norma sia sufficientemente qualificata;

- esista un nesso causale diretto tra la violazione in parola e il danno subito dai singoli.

Con riferimento alla prima condizione emerge che l'art. 6, lett. b), della direttiva 2003/88, imponendo agli Stati membri un limite massimo per la durata media settimanale dell'orario di lavoro di cui deve beneficiare ogni lavoratore quale prescrizione minima, costituisce una norma del diritto sociale dell'Unione che riveste importanza particolare, la cui portata non può essere subordinata a qualsiasi condizione o restrizione e che conferisce ai singoli diritti che essi possono far valere direttamente dinanzi ai giudici nazionali.

Per quanto riguarda la seconda condizione, la Corte rammenta che l'esistenza di una violazione sufficientemente qualificata implica una violazione grave e manifesta da parte dello Stato membro dei limiti posti al suo potere discrezionale.

Al riguardo, fra gli elementi da prendere in considerazione, vanno sottolineati il grado di chiarezza e di precisione della norma violata e l'ampiezza del potere discrezionale che tale norma riserva alle autorità nazionali. Infine, per quanto riguarda la terza condizione per l'affermazione della responsabilità di uno Stato per violazione del diritto dell'Unione, spetta al giudice del rinvio verificare se esista un nesso causale diretto tra la suddetta violazione dell'articolo 6, lett. b), della direttiva 2003/88 ed il danno subito dal lavoratore, derivante dal mancato godimento del periodo di riposo di cui avrebbe dovuto beneficiare se la durata massima settimanale dell'orario di lavoro prevista da tale disposizione fosse stata rispettata.

Ciò posto, secondo la giurisprudenza della Corte, le tre condizioni richiamate sono sufficienti per attribuire ai singoli un diritto al risarcimento.

Il diritto al risarcimento per violazione del diritto dell'Unione è, tuttavia, subordinato alla prova dell'esistenza di un elemento soggettivo particolare, quale una condotta dolosa o colposa, in capo al datore di lavoro, dal momento che costituisce di per sé una violazione sufficientemente qualificata del diritto dell'Unione.

Per quanto riguarda la forma e la modalità di calcolo del risarcimento del danno, la Corte ha affermato che il risarcimento dei danni cagionati ai singoli da violazioni del diritto dell'Unione deve essere adeguato al danno subito, così da garantire una tutela effettiva dei loro diritti.

Conclusioni

I principi stabiliti dalla sentenza della Corte vanno inevitabilmente calati nell'ordinamento interno e ai criteri applicativi stabiliti dalle disposizioni precettive nazionali.

Al momento, in Italia, manca ancora una chiara disposizione sulle modalità di calcolo della media della durata massima settimanale.

Questo comporta inevitabilmente una incertezza per le imprese e professionisti sui criteri da applicare per contenere la prestazione dei lavoratori all'interno della durata massima settimanale stabilita dalle norme comunitarie e conseguentemente dall'articolo 4 del decreto legislativo 8 aprile 2003, n. 66.

Peraltro, la stessa legge 4 novembre 2010, n. 183 (Collegato lavoro), recentemente approvata nel nostro Paese, riscrive le regole di determinazione della sanzione amministrativa in caso di superamento della durata massima settimanale.

La nuova norma attribuisce al "periodo di riferimento" un ruolo fondamentale per determinazione della sanzione amministrativa.

Quindi, i tempi appaiono maturi affinché il Ministero del lavoro si esprima sul tema per fornire agli operatori un chiaro indirizzo di calcolo per evitare che le imprese, inconsapevolmente, si trovino a superare il limite massimo stabilito dalle norme esponendosi sia ad una sanzione amministrativa sia ad una richiesta di risarcimento del danno da parte dei lavoratori impiegati.

Le alternative allo studio sono due: periodo di riferimento individuato su base fissa oppure mobile.

Senza entrare in questa sede sulle diverse ipotesi e conseguenze delle diverse scelte a disposizione (tema già affrontato in più occasioni in queste pagine), si ritiene che per dare certezza e semplicità di calcolo alle aziende, il periodo di riferimento debba essere fisso. Questo comporta che l'anno viene diviso in tre parti: gennaio-aprile; maggio-agosto, settembre-dicembre.

In questi tre periodi dell'anno, le aziende devono organizzare la propria produzione lavorativa in modo tale che mediamente il lavoratore non superi un orario di 48 ore settimanali.

La parola ora passa al Ministero del lavoro.

Guida al Lavoro del 10 dicembre 2010
di De Fusco Enzo

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