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mercoledì 29 dicembre 2010

Contratto a tempo determinato, i dubbi della nuova disciplina introdotta dal Collegato lavoro

Sentenza Tribunale di Busto Arsizio n. 528 del 29 novembre 2010

L’articolo 32, comma 5 e seguenti del Collegato Lavoro prevede che “nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’articolo 8 della legge n. 604 del 1966”.

Con recente sentenza il Tribunale di Busto Arsizio, 29 novembre 2010 n. 528, nel riconoscere la nullità del termine apposto al contratto, per la totale mancanza delle ragioni tecniche, organizzative, produttive e sostitutive previste dall’art. 1 del D.Lgs. n. 368/2001 ha dato applicazione alla disposizione prevista dall’art. 32, comma 5, L. 183 del 2010, prevedendo da un lato, la conversione automatica del contratto, per nullità del termine e, dall’altro, la condanna del datore di lavoro al pagamento sia delle retribuzioni nel frattempo maturate, sia dell’indennità risarcitoria prevista dalla norma in esame.

L’interpretazione data da codesto Tribunale risulta alquanto importante nel contesto della disciplina del contratto a termine, soprattutto alla luce delle finalità che il legislatore ha voluto perseguire con il dettato previsto dal c.d. Collegato Lavoro.
In vero, secondo quanto previsto dal D.Lgs. n. 368/2001, che disciplina l’assunzione del lavoratore a tempo determinato come eccezione alla regola dell’assunzione a tempo indeterminato, la mancanza della causale (ragioni tecniche, organizzative, produttive e sostitutive), riconduce al riconoscimento della nullità del termine apposto al contratto provocando la conversione in rapporto di lavoro a tempo indeterminato con le conseguenze risarcitorie proprie di tale conversione, vale a dire la condanna al pagamento delle retribuzioni non percepite fino al momento della effettiva riammissione in servizio del lavoratore.

Tali retribuzioni decorrono, secondo consolidato orientamento, non dalla scadenza del contratto ma dall’atto di messa in mora del datore di lavoro, cioè dall’effettiva offerta della propria prestazione da parte del lavoratore il cui contratto a termine sia venuto a scadenza.

Alla luce di quanto finora detto e al fine di evitare che il datore di lavoro fosse costretto a riconoscere al lavoratore un risarcimento eccessivo, l’articolo 4 bis del D.L. n. 112/2008, convertito con modificazioni in L. n. 133/2008, inserendo nel D.Lgs. n. 368/2001, sanciva che, “con riferimento ai soli giudizi in corso alla data di entrata in vigore della presente disposizione – cioè il 22 agosto 2008 - e fatte salve le sentenze passate in giudicato, in caso di violazione delle disposizioni di cui agli articoli 1, 2 e 4, il datore di lavoro è tenuto unicamente ad indennizzare il prestatore di lavoro con un’indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di sei mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni”.

La suddetta norma però, veniva dichiarata illegittima dalla Corte Costituzionale, con sentenza n. 214/2009, poiché prevedeva una normativa completamente diversa per situazioni che di fatto potevano definirsi identiche.

Per tale motivo è stato previsto l’art. 32, comma 5 e segg. della L. n. 183/2010, il quale però ha creato non pochi problemi interpretativi.

In vero, vi è dubbio se il legislatore abbia voluto considerare l’indennità risarcitoria:

- sostitutiva della conversione del rapporto di lavoro e di ogni indennità risarcitoria ad essa connessa, anche se in realtà tale interpretazione non pare supportata né dalla lettera della norma;
- alternativa rispetto alle retribuzioni perse nel periodo intercorrente tra la data di cessazione del rapporto – o di messa in mora del datore di lavoro - e la data della riammissione in servizio, ferma restando la conversione del rapporto a tempo indeterminato;
- aggiuntiva rispetto sia alla conversione del rapporto di lavoro sia alle retribuzioni perse.
Alla luce della recentissima sentenza emanata dal Tribunale di Busto Arsizio, sembra palese che l’interpretazione avvalorata sia quest’ultima, che però sarebbe nettamente in contrasto con l’intento posto in essere dal Legislatore di porre un limite al risarcimento posto a carico del datore di lavoro.
Inoltre, anche l’art. 32 summenzionato non ha escluso i dubbi di legittimità costituzionale (la questione di legittimità è stata sollevata in data 20 dicembre 2010 dal Giudice del Tribunale di Trani) che hanno coinvolto la disposizione di cui all’art. 4 bis del D.Lgs. n. 368/2001, in merito alla disparità di trattamento che verrebbe a determinarsi per effetto della previsione di un’indennità omnicomprensiva diretta a contenere le lungaggini del processo e della perdita del diritto alla ricostruzione previdenziale del rapporto di lavoro.
Pertanto, non resta che aspettare ulteriori interventi giurisprudenziali per riuscire a dare una corretta interpretazione alla norma in esame.

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