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lunedì 13 settembre 2010

Usi aziendali nel trasferimento d'azienda

La cessione d’azienda incide negativamente sulla corresponsione di elementi retributivi stabiliti dagli usi aziendali, i quali non sopravvivono alla cessione stessa.
Il dipendente nell’ipotesi di incorporazione dell’azienda può veder venir meno alcuni elementi retributivi, quali il superminimo individuale ed il premio di rendimento.
Lo ha affermato la Sezione lavoro della Corte di Cassazione nelle pronuncia 5882/2010, ad avviso della quale: “L’incorporazione di una società in un’altra è assimilabile al trasferimento d’azienda.E’ quindi applicabile il principio desumibile dall’art 2112, comma 3, C.C. secondo cui la contrattazione collettiva dell’acquirente, successiva a quella dell’alienante sostituisce immediatamente e in tutto la prima disciplina collettiva”.
Il diritto riconosciuto dall’uso aziendale, non concretizzandosi in una clausola più favorevole del contratto individuale, non sopravvive al mutamento della contrattazione collettiva, conseguente al trasferimento d’azienda”.
La pronuncia trae origine dal ricorso presentato dal dipendente di una banca incorporata in un altro istituto di credito
Il nuovo assetto proprietario aveva comunicato formalmente alle rappresentanze aziendali la disdetta del contratto integrativo aziendale, stipulato dalla cedente, ma il ricorrente aveva chiesto ugualmente il riconoscimento del diritto al superminimo individuale ed al premio di rendimento che da tale accordo erano stati istituiti.
Il Giudice di primo grado accoglie integralmente la domanda del ricorrente, mentre la Corte D’Appello conferma la pronuncia del Tribunale per la parte relativa al superminimo e respinge la richiesta di pagamento del premio di rendimento.
I giudici di secondo grado avevano motivato la sentenza sostenendo che il superminimo era stato corrisposto in modo continuativo per vent’anni e che tale comportamento aveva determinato l’esistenza di un uso aziendale e l’inserimento del relativo diritto nel contratto individuale di lavoro.
Avverso la sentenza ricorrono al Giudice di legittimità sia la Banca che il dipendente.
La Suprema Corte una volta ribadita l’assimilabilità dell’incorporazione al trasferimento e quindi l’applicabilità del CCNL vigente nell’impresa del cessionario anche se più sfavorevole affronta il problema complesso della qualificazione giuridica dell’uso aziendale.
La Corte ribadendo l’orientamento inaugurato con la sentenza n. 9690/1996 afferma che l’uso aziendale fa sorgere un obbligo unilaterale di carattere collettivo, che agisce sul piano dei singoli rapporti individuali di lavoro, allo stesso modo e con la medesima efficacia di un contratto collettivo aziendale, sostituendo alle clausole contrattuali e a quelle collettive in vigore, quelle più favorevoli dell’uso aziendale, (art. 2077 C.C.).
Ad avviso di questo orientamento le clausole d’uso si inseriscono nei contratti individuali, per effetto di un meccanismo di disciplina collettiva,similare a quella aziendale e non per effetto di un meccanismo genetico interindividuale.
I trattamenti migliorativi da uso aziendale, una volta equiparati ad una fonte collettiva, perdono le garanzie di insensibilità (art. 2077, comma 2, C.C.), rispetto alle vicende delle successioni temporali delle fonti collettive e ne seguono le sorti, con effetti di revoca o di sostituzione da parte di fonti collettive successiva, che contemplano anche trattamenti in pejus.
Per queste ragioni la Cassazione enuncia il principio sopra esposto e rinvia ad altra Corte d’Appello.

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